Proiezioni

Febbraio

  • ore 21:30
  • ore 21:30
  • ore 17:30 e 20:30
  • ore 17:30

Trama

Adattando un suo romanzo, Paolo Genovese torna a parlare di seconde possibilità e prende di petto un tema scomodo come il suicidio. Nel cast del film, Toni Servillo, Margherita Buy, Valerio Mastandrea, Sara Serraiocco.
In inglese ci sono tre parole che definiscono la solitudine: aloneness, loneliness e solitude. La prima allude alla solitudine fisica, la seconda alla solitudine emotiva e quindi a un senso di fallimento, di abbandono. La terza, infine, è una solitudine positiva, che coincide con l'autorealizzazione, la calma e la maturità, oltre che con un "tempo di qualità". I personaggi de Il primo giorno della mia vita le sperimentano tutte e tre le solitudini e, grazie a un deus ex machina dal viso stanco e gli abiti stazzonati, cercano di passare dalla seconda alla terza. Prima dell'arrivo del loro traghettatore imperfetto e appassionato di jazz, hanno tutti rinunciato a una vita balorda, che li ha privati degli affetti, delle certezze e del coraggio di manifestare i propri bisogni. E così eccoli: chi su un ponte, chi sul cornicione di un palazzo, chi in automobile con una pistola premuta sotto al mento, chi nella propria cameretta con un vassoio di ciambelle che fa schizzare la glicemia alle stelle.
Ma per Arianna, Napoleone, Emilia e Daniele, che sono frutto di una fervida immaginazione, qualcuno ha inventato un'ultima opportunità: 7 giorni in cui dovranno decidere se uccidersi davvero o tornare nell'istante che ha preceduto l'insano gesto e ripensarci. Questo qualcuno è Paolo Genovese, il regista italiano che ama raccontare le seconde possibilità e le nuove prospettive, anche a costo di oltrepassare i confini della realtà abbracciando la magia. Ben vengano quindi, ne Il primo giorno della mia vita gli angeli, l'invisibilità, l'impossibilità di mangiare e frammenti del proprio futuro proiettati in un cinema abbandonato, che è metafora delle sale ancora troppo vuote, che inevitabilmente ci ricordano che abbiamo vissuto in lockdown. E proprio il lockdown è una "circostanza" di cui non si può tenere conto quando si guarda il film, perché il sentirsi in bilico fra la vita e la morte, le strade e le piazze deserte e l'assenza di speranza sono palpabili in un racconto per immagini attraversato dalla malinconia e ancora di più dalla nostalgia, che rende la malinconia dolce e ancora più struggente. Genovese, oltretutto, ha girato durante la pandemia, lasciando che lo smarrimento dei suoi attori corrispondesse a quello dei loro personaggi, annichiliti di fronte a un destino beffardo e assurdo.
Infine c'è la pioggia, scura e insistente, fatta delle lacrime che i quattro aspiranti suicidi non hanno ancora pianto. È una pioggia, inutile dirlo, che ricorda Blade Runner, anche se lo scenario non è futuristico. Piuttosto è fosco. Siamo a Roma, ma solo chi conosce bene la città lo capirà, riconoscendo Piazza Vittorio e le strade intorno alla stazione Termini, illuminate da una fotografia a volte livida, che vira su colori blu freddi per lasciare il passo, di tanto in tanto, a una luce più calda. Non fa sconti il regista di Perfetti sconosciuti e prende di petto uno dei grandi rimossi della nostra società cattolica più che laica, che identifica nel suicidio un atto di rivolta contro Dio, invece che una libera scelta, un gesto di protesta, la massima espressione del libero arbitrio. Riprende i suoi personaggi con più di una macchina da presa Genovese, dimostrando ancora una volta di essere un bravo filmmaker, e al principio predilige gli interni: l'abitacolo di una vecchia Volvo in cui l'autoradio ingoia musicassette, stanze di un hotel a due stelle dove anche i fiori sono scoloriti, qualche bar e ristorante. Siamo lontani, insomma da Immaturi, e l'impressione che si ha è quella di un cambio di passo che nasce da un'esigenza di analisi e forse autoanalisi. L'effetto è potentissimo, e siccome è di dolore che si parla, ciascun attore lavora di sottrazione, a cominciare da Margherita Buy e da Valerio Mastandrea, la prima alle prese con una donna che teme di perdere il dolore sordo di cui si nutre e che presto si trasformerà in senso di vuoto, il secondo affetto da un male di vivere, da uno spleen sempre più soffocante. E se la Emilia di Sara Serraiocco si misura con l'incapacità di fare i conti con un mondo sempre più competitivo, attraverso il piccolo Daniele (Gabriele Cristini) si fa strada il tema della genitorialità imperfetta.
Paolo Genovese non giudica, non insegna, anche se il suo sguardo fa capolino nei piani d'ascolto di un ineccepibile Toni Servillo, però a un certo punto sembra aver bisogno di aria e spalanca le finestre, apre le gabbie dei suoi quattro dead man walking e lascia entrare proprio la speranza, che è una piacevole brezza, e perfino la felicità, che per Napoleone & Co., ma anche per molti di noi, altro non è che una casetta in riva al mare e una persona amica che ci cucina la pasta con le vongole. Il Primo giorno della mia vita non è un manuale di autoaiuto sui "no che insegnano a vivere" o su "come rafforzare l'autostima", ma, attraverso il suo angelo sgualcito che chiede "Permesso?", ci suggerisce che, se il presente ci opprime, il futuro può avere in serbo per noi cose belle. Ma soprattutto il film intende ribadire che nessuno, ma proprio nessuno, si salva da solo.
Cinema Verdi San Vincenzo

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