Proiezioni

Aprile

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Trama

Un cast spettacolare non è l'unico punto di forza di un film che riporta al cinema la storia scritta da Alexandre Dumas con alcune interessanti variazioni di trama ma, soprattutto, con la voglia di essere moderno e contemporaneo rispettando la classicità di trama e ambientazioni.
Ci si potrebbe sicuramente interrogare su che senso abbia, oggi, anno 2023, portare al cinema l’ennesima versione di una delle storie più filmate di sempre, quella dei Tre Moschettieri, inventata e scritta da Alexandre Dumas nel 1844. Posto che sia la domanda, a aver senso, e di questo non sono affatto sicuro, la risposta qui nel modo stesso in cui gli sceneggiatori Matthieu Delaporte e Alexandre de la Patellière, e il regista Martin Bourboulon, hanno pensato e realizzato il loro film. Gli ultimi moschettieri che avevamo visto al cinema sono stati quelli tutti da ridere, almeno in teoria, di Giuseppe Veronesi, più vicini al Monicelli di Brancaleone che all’epica di Dumas. Prima ancora avevamo visto la versione superaction, carnascialesca e clockpunk di P.W. Anderson, che Dumas lo perdoni. Prima ancora, versione Disney anni Novanta, con tutto quello che l’unione tra Disney e anni Novanta comporta. Ecco che allora I tre moschettieri: D’Artagnan subito spicca, e si fa notare, per la sua voglia di prendersi sul serio (come stanno a testimoniare anche 70 milioni di euro di budget, che si vedono tutti) senza essere serioso, e per la sua capacità di unire classicismo e contemporaneità senza mai perdere l’equilibrio, o farsi baraccone.
Non sarà cinema eccelso raffinato, quello di Bourboulon, ma è cinema: buono e solido. Dove per cinema qui s’intende soprattutto la capacità di raccontare una storia utilizzando tutti gli strumenti che il mezzo mette oggi a dispozione di un regista, ma anche la sua tradizione, e la sua classicità. Quel tipo di cinema che si contrappone naturalmente a quello contemporaneo che, per quanto riguarda blockbuster e grandi produzioni, tende a virare verso il videogame, o il parco giochi, e comunque verso una virtualizzazione dell’esperienza e della storia e dei personaggi che stanno sullo schermo. Qui, dove il digitale è assente (e se c’è, non lo si vede), l’esperienza è decisamente fisica. I costumi, i suoni, la terra, i cavalli, le spade, gli intrighi: nulla di tutto questo appare virtuale, o giocoso, ma concreto, palpabile, e serio. Ora: non è che I tre moschettieri: D’Artagnan non si conceda qualche momento di leggerezza, o di ironia. Tutt’altro: basti pensare ai siparietti sentimentali tra D’Artagnan e Costanza. Ma quella leggerezza e quell’ironia non sono mai sfacciate, mai maniera, mai ammicco implicito allo spettatore da parte del demiurgo-burattinaio. E lo stesso vale per le scene d’azione, e per quelle di combattimento, nelle quali mai per un momento Bourboulon si fa prendere da fregole action postmoderne, impaginando però allo stesso tempo combattimenti e inseguimenti che hanno tutto il dinamismo (e, ancora, la fisicità) che sono necessari alla loro credibilità e alla loro presentabilità nel panorama del cinema di questi nostri anni.
Che I tre moschettieri: D’Artagnan riesca a essere contemporaneo senza essere inutilmente postmoderno, e classico senza apparire antiquato, è qualcosa che si vede e si capisce anche nel mondo in cui la sceneggiatura ha deciso di equilibrare la fedeltà e i tradimenti rispetto al testo di Dumas. Un testo che è perfettamente riconoscibile, anche e forse soprattutto lì dove il film si prende le sue giuste libertà. Se i moschettieri sono quelli che conosciamo benissimo, e se Vincent Cassel (Athos), Romain Duris (Aramis), Pio Marmaï (Porthos) e François Civil (D’Artagnan) sono i loro migliori interpreti almeno da decenni a questa parte, ecco che la Milady interpretata da una radiosa Eva Green che pare nata per la parte e che diventa padrona della storia quando appare, devia rispetto alla tradizione, diventa più fattiva, spietata, e moderna. E se Bourboulon, Delaporte e de la Patellière hanno calcato sull’aspetto di guerra di religione già contenuto nel romanzo, e messo in scena un vero e proprio attentato terroristico “al cuore del regno”, non può non far pensare a certi risvolti contemporanei, e a tragici fatti accaduti realmente in Francia pochi anni fa: ma senza mai che questo diventi pesante portato allegorico, capace di spostare, o affossare, l’epicentro di un grande romanzo d’avventura.
Ecco, è proprio la sua grande e esplicita natura romanzesca, a fare di questo I tre moschettieri: D’Artagnan, un film capace di una sua epica. Non a caso, forse, cosciente di tutto questo, si permette di chiudere la sua storia con un “Continua”, come per ultimo si era permesso implicitamente di fare solo Peter Jackson con la sua Trilogia del Signore degli Anelli. Una natura romanzesca che avvince, appassiona, coinvolge. Una natura romanzesca che si fa forte dell’attenzione evidente ma mai compiaciuta ai costumi, alle scenografie, a un casting che oltre a quelli già citati si fa forte di una coppia reale davvero ben assortita come quella formata da Louis Garrel e Vicky Krieps, oramai a suo agio in panni regali e in splendidi abiti d’epoca.
Poi certo, colpisce un po’ che perfino la laicissima Francia, una delle ultime sacche di resistenza alle devianze ultra-corrette e inclusive e quant’altro provenienti dal mondo statunitense e anglosassone, abbia qui ceduto, parzialmente, facendo di Porthos un personaggio che confessa la sua bisessualità (nel nome di appetiti che non fanno troppe distinzioni), e di ​​Constance Bonacieux, fidatissima guardarobiera della Regina, una ragazza magrebina (Lyna Khoudri, peraltro bravissima come sempre, e come vedremo in Novembre). Ma nulla di tutto questo, in fondo, appare davvero forzato, e di certo non inficia il piacere della visione. Tanto più che, nel secondo capitolo di questo dittico, l’annunciato I tre moschettieri: Milady, ci sarà anche spazio per il primo moschettiere nero della storia. Della storia del cinema, ma anche di quella con la s maiuscola.


Cinema Verdi San Vincenzo

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